Il cervello anziano non riesce a trascurare stimoli irrilevanti ma può correggersi

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 25 aprile 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVE AGGIORNAMENTO]

 

All’inizio della mia pratica psichiatrica negli Stati Uniti fui assegnata ad una casa di riposo per artisti italo-americani, col compito di studiare il profilo di adattamento psicologico e rilevare la presenza di eventuali disturbi psicopatologici, sfruttando il vantaggio costituito dalla cultura d’origine comune. La maggior parte degli ospiti di quella incantevole residenza non aveva alcuno dei tratti involutivi che compongono lo stereotipo del “vecchietto da ospizio”, e molti si comportavano come premurosi padroni di casa, ansiosi di mostrarmi i cimeli del loro passato o gli angoli più gradevoli e panoramici del giardino monumentale della villa. Ricordo che nelle conversazioni, per quanto fossi molto attenta al rilievo di quei segni cognitivi che i manuali indicavano come distintivi della terza età, non mi riusciva di rilevarne alcuno.

Fui invece colpita da una particolarità che accomunava quasi tutti: anche quando impegnati a conversare, e indipendentemente dal ruolo di parlante o ascoltatore, non sembravano in grado di trascurare stimoli banali e irrilevanti, quali il volare di un insetto, la chiusura rumorosa di una porta, passi regolari nel corridoio, voci lontane e poco distinte di sconosciuti o il cadere di una foglia da un albero del giardino. Ne parlai con loro e, se alcuni si affrettarono a dare spiegazioni motivando in modo ragionevole e condivisibile il perché del loro distrarsi in una particolare occasione, altri sembravano interessati quanto me a cercare di capire se si trattasse di uno stile cognitivo dovuto a una qualche ragione neurologica.

Ora, questo particolare tipo di distraibilità dell’anziano si considera una nozione acquisita, prima genericamente attribuita alla perdita di neuroni e sinapsi inibitorie necessarie alla repressione della risposta a stimoli banali, poi studiata come indebolimento dei sistemi neuronici che esercitano un filtro automatico sulla base delle priorità cognitive di focalizzazione dell’attenzione.

La ricerca in questo campo prosegue, fornendo elementi interessanti. Prima di discutere brevemente di due studi recenti, che costituiscono lo spunto principale per questo scritto, ritorno sulla mia esperienza americana, perché il ricordo delle caratteristiche principali del mio intervento aiuta a comprendere quanto stia cambiando la pratica in questo campo, grazie ai progressi delle neuroscienze.

I miei primi colloqui furono delle vere e proprie conversazioni da salotto, alle quali feci seguire, nelle visite successive, interviste non direttive di impronta rogersiana: il passaggio fu quasi inavvertito ed il successo totale, anche se dovevo fare affidamento sulla mia memoria, perché non prendevo appunti scritti durante gli incontri, per evitare di perdere la loro spontaneità e la fiducia nel rapporto amicale che si era stabilito. Per mia propensione e formazione, cercavo di comprendere il vissuto di quelle persone in rapporto ad esperienze passate e presenti e ai legami affettivi più importanti.

La pratica psichiatrica si basava ancora su un approccio prevalentemente psicologico e, anche se non faceva più ricorso agli stili di personalità ancora in auge fino agli anni Novanta, per definire l’adattamento o il disadattamento a una condizione di vita si basava ampiamente sull’osservazione comportamentale e su teorie psicologiche con le quali si interpretavano i contenuti mentali. Poi vi era l’esame dello stato mentale che risentiva, soprattutto in Europa, dei criteri semeiotici della scuola di psichiatria dalla quale si proveniva; anche se questo non era il caso dell’esame del paziente anziano, per il quale la pratica psichiatrica era notevolmente “neurologizzata”, e in Italia era già molto simile a quella statunitense.

La tendenza prevalente era quella di procedere ad un esame volto all’identificazione di segni e sintomi psicopatologici: nel caso dei miei pensionati, il mancato rilievo di tali manifestazioni deponeva per una vecchiaia fisiologica, mentre il riscontro di segni e sintomi avrebbe determinato l’avvio di un iter diagnostico mirato, verso l’accertamento di una demenza, una psicosi senile o altri disturbi. Di fatto, lo studio della fisiologia neuropsichica, e in particolare della sfera cognitiva, era riservato all’esame neuropsicologico, condotto per lo più da psicologi clinici, negli USA, e da neurologi specializzati in neuropsicologia, in Italia.

Personalmente scelsi di seguire un criterio diverso, propugnato da David L. Sulter, professore di clinica psichiatrica dell’Università della California a Los Angeles e direttore di un dipartimento di neuropsichiatria geriatrica. Secondo la sua impostazione, lo psichiatra, dopo una valutazione neurologica centrata su funzione motoria e sensoriale, deve condurre un esame completo dello stato mentale, per valutare l’integrità delle abilità che attengono all’elaborazione della percezione, del pensiero, della comunicazione e del problem solving. A tale scopo devono essere studiati vari ambiti cognitivi, tra cui attenzione, funzioni visuospaziali, memoria, linguaggio, capacità di calcolo e funzioni esecutive. L’attuazione di tale programma richiede l’impiego di test, batterie e prove formalizzate di vario tipo. Ad esempio, per rimanere al problema di filtro dell’attenzione da me rilevato, si eseguono le seguenti 5 prove.

1. Digit span. Si effettua questa prova di estensione (span) della memoria di breve termine, perché la prestazione è influenzata dalla capacità di concentrarsi. Si presenta una successione di tre cifre alla distanza temporale di un secondo l’una dall’altra (visivamente, ma anche a voce nella versione audio-percettiva) e si chiede all’esaminando di ripeterle in corretta sequenza, senza aiuto. Alla risposta corretta si va avanti, aumentando di una cifra alla volta. In alcune versioni del test per ogni estensione di sequenza (quattro cifre, cinque, sei) si propongono cinque prove e si ritiene che lo span corrisponda alla lunghezza di sequenza ricordata correttamente in almeno tre prove su cinque. La ripetizione corretta di una sequenza di cinque cifre si ritiene nella norma.

2. Reverse digit span. In questo caso si chiede al paziente di ripetere in ordine inverso le cifre presentate. Questa prova è specifica per valutare l’invecchiamento cerebrale, perché la capacità di eseguire all’inverso la sequenza risente molto dell’età, e anche in persone anziane con un digit span di sei cifre, il richiamo invertito di sole tre cifre può risultare molto difficile. Per questa prova lo standard normale nella terza età è di 3.

3. Serial 7s. Si chiede all’esaminando di sottrarre a mente 7 da 100, e poi di continuare fino a zero (93 – 7 = 86 – 7 = 79 – 7 = 72 – 7 = 65 – 7 = 58 – 7 = 51 – 7 = 44, ecc.). Il compito impegna, oltre alla working memory, una continuità di concentrazione, spesso decisiva per la riuscita del compito. Negli anziani scolarizzati sani, sia pure a fatica e con qualche interruzione, si riesce a giungere fino alla fine (9 – 7 = 2).

4. Reverse sequences. Si può considerare una versione più semplice del compito precedente, adatta alle persone con bassa scolarità, difficoltà con i numeri o lievi problemi cognitivi già accertati. Consiste nell’elencazione inversa dei mesi dell’anno e dei giorni della settimana.

5. Continuous performance. È una prova di attenzione sostenuta. In genere si esegue presentando successioni casuali di lettere in continuazione, alla frequenza di una per secondo, per una durata di almeno 30 secondi, e si chiede all’esaminando in ogni prova di battere un colpo sul tavolo all’apparire o all’udire pronunciare una particolare lettera, ad esempio la “A”. L’anziano sano non commette errori, ma in presenza di disturbi si verificano sia falsi positivi che falsi negativi.

Queste cinque prove non sono che una piccolissima parte di un testing che potrebbe essere eseguito anche in un modo più analitico e scientifico, adoperando versioni recenti delle batterie computerizzate introdotte dai coniugi Gianutsos e portate in Italia da Luciano Lugeschi, o facendo ricorso al software impiegato per la ricerca che utilizza la risonanza magnetica funzionale. L’accettazione di tali esami è tutt’altro che scontata, e i miei artisti a riposo, dopo essersi accertati che non avevo rilevato in loro malattie psichiche, opposero un netto rifiuto a qualsiasi valutazione che li avrebbe fatti sentire “come a scuola” o “come topi di laboratorio”.

Gli approfondimenti degli ultimi anni consentono di realizzare prove affidabili, che non richiedono un testing completo di tutte le prestazioni cognitive che possono essere influenzate dall’attenzione, ma sono mirate e spesso accattivanti per semplicità e presentazione grafica al computer come giochi piacevoli. Una valutazione con questi requisiti, propri delle prove adottate dai ricercatori della Brown University che hanno eseguito il primo dei due studi di cui ci occupiamo, forse non sarebbe stata rifiutata dai miei artisti pensionati.

Il lavoro, pubblicato su Current Biology, ha posto a confronto anziani e giovani nella terza decade di vita, ossia oltre i venti anni, nell’esecuzione di un compito visuo-cognitivo, allo scopo specifico di studiare la difficoltà a trascurare stimoli banali interferenti da parte degli anziani[1].

In breve, si presentava ai partecipanti una sequenza di lettere e numeri e si chiedeva di riferire solo a riguardo dei numeri. Ma l’elemento distraente non era costituito dalle lettere che, come simboli, hanno una forza di rappresentazione neurocognitiva paragonabile a quella dei numeri e addirittura superiore, per il legame ordinario con i significati veicolati dalla scrittura. Sullo schermo, infatti, oltre a lettere e cifre, apparivano anche delle serie di punti. Le ridotte dimensioni e la mancata menzione di queste piccole macchiette circolari da parte degli sperimentatori, era più che sufficiente a renderle “insignificanti” per la massima parte delle persone. Tali punti a volte si muovevano casualmente, altre volte seguivano complessivamente una ben definita direzione potendo, secondo quanto ipotizzato dai ricercatori, finire per attrarre l’attenzione degli anziani, eventualmente distraendoli dal compito di occuparsi delle cifre ignorando le lettere.

Ecco il risultato. Mentre i giovani erano riusciti ad ignorare i punti, concentrando quasi del tutto l’attenzione sui numeri, gli anziani avevano prestato più che una semplice attenzione a quello stimolo irrilevante. Le domande poste dai ricercatori dopo l’esecuzione delle prove hanno fornito un quadro molto interessante, rilevando che alcuni partecipanti della terza età, non solo avevano tenuto conto dei punti, ma avevano finito addirittura per memorizzare i patterns di configurazione che questi componevano sullo schermo (!).

Difficile immaginare una prova più convincente dell’esistenza di questo particolare difetto di filtro degli stimoli poco rilevanti. Ma se tale caratteristica è un tratto funzionale bene stabilito del cervello anziano, è lecito chiedersi se si stratta di un cambiamento irreversibile.

Uno studio indipendente, pubblicato sulla rivista Neuron, ha affrontato l’affascinante tema della possibilità di “curare” questo difetto di focalizzazione attenzionale mediante uno specifico training. Adam Gazzaley, coadiuvato da un team di ricercatori dell’Università della California a San Francisco, ha ideato a partire da un unico paradigma due regimi di esercizi, uno per roditori di laboratorio e l’altro per anziani della nostra specie[2]. In sostanza, lo schema era basato sulla percezione di tre suoni, di tre frequenze acustiche ben distinte, fra i quali uno era proposto come segnale principale o target, da distinguere dalle frequenze distraenti. Il riconoscimento del target era rinforzato con una ricompensa. Il compito, man mano che al procedere del training migliorava la prestazione, cresceva di difficoltà, con frequenze del tono che doveva distrarre, sempre più prossime a quelle del target.

Alla fine del periodo di esercizio, è stata condotta una nuova valutazione prestazionale, sia nei ratti che negli anziani che si erano volontariamente sottoposti all’esercitazione, mediante test di attenzione e memoria. La verifica ha certificato l’efficacia del training, registrando sia nella nostra specie che nei roditori, un numero significativamente più basso di errori dovuti all’effetto della distrazione. Inoltre, le registrazioni elettrofunzionali delle risposte cerebrali ai distrattori hanno fatto rilevare una riduzione della reazione.

L’importanza di questo studio consiste nell’aver superato un’empasse che durava da tempo. Infatti, i precedenti studi di valutazione di esercizi volti alla “riabilitazione” di questo difetto, avevano fatto registrare sempre dei fallimenti. La ragione è ora evidente: i gruppi di ricerca precedenti avevano considerato questo tipo di distraibilità come un difetto di focalizzazione dell’attenzione, ovvero come riduzione o perdita di un processo di attivazione; al contrario, come correttamente rilevato da Adam Gazzaley e colleghi, in questo caso è in gioco un difetto del filtro attenzionale, ovvero ciò che difetta è un controllo inibitorio. La teoria è confermata da un rilievo sorprendente: la capacità di focalizzazione su un compito, da parte di anziani non affetti da alcun disturbo clinicamente rilevante, è quasi identica a quella di giovani di venti anni.

La ricerca prosegue e, anche se non speditamente ma a fatica, compie dei passi in avanti che, in questo caso, sembra abbiano chiarito allo stesso tempo un processo dell’attenzione ed una caratteristica influenza dell’età sul funzionamento cognitivo.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-25 aprile 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cfr. Esther Landhuis, The Distractible Aging Mind. Sci Am Mind 26 (2): 12, 2015.

[2] Cfr. Esther Landhuis, op. cit., ibidem.